Non di rado nell’affrontare gli argomenti centrali del dialogo ebraico-cristiano, incorro nel perpetuarsi di ombre e pregiudizi antichi, direi ancestrali, sotterrati magari da tanta buona volontà che peraltro da sola, non riesce a illuminare certe zone buie. Poi d’un tratto, inaspettatamente e dolorosamente, quei fantasmi fuoriescono irrisolti in tutta la loro gravità e pesantezza. Lo si evince da certi commenti e dai quesiti “ingenui” che talvolta mi vengono posti durante gli incontri o le lezioni che tengo.
Lungi dal voler presentare un contributo definitivo, e consapevole dell’incompletezza di ogni conoscenza umana (I Co.13,9), ho sentito fortemente il desiderio di affrontare in questa sede uno dei nodi cruciali del dialogo ebraico-cristiano: la crocifissione di Gesù. Incompiutamente non significa irresponsabilmente. Esporrò dunque le mie opinioni correlandole di fonti e di una bibliografia essenziale ragionata. Ogni riflessione che voglia aggiungersi a questa, sarà bene accetta, purché rispettosa nei toni e nei modi.
Con questo mio breve, mi rivolgo a tutti gli uomini di buona volontà che perseguono un cammino di verità affinché insieme si possa collaborare aiutandosi a distinguere il bene dal male per scegliere la vita (De. 30,19).
Concordando pienamente con quanto scritto da Christian Weise nella sua postfazione all’importante tesi storiografica di Chaim Cohn (pp. 379-394), anch’io ritengo che una delle radici fondamentali dell’antiebraismo cristiano trova la sua ragione d’essere nella rappresentazione neotestamentaria della crocifissione di Gesù. Da quasi tre secoli, prima infatti era un completo tabù, la storiografia si è fortemente concentrata sulla figura del Rabbi di Nazareth, ma è soprattutto nell’ultimo ventennio che si è visto il fiorire di studi innovativi, di grande impegno e valore. Assieme a Cohn, riducendo all’osso la lista degli emeriti studiosi, ricordo Sanders, Vermes, Theissen, Flusser, Rendtorff, Baeck, Barbaglio, Ben-Chorin, ecc.
Senza entrare nei dettagli, per quanto riguarda le circostanze della crocifissione di Gesù, si può dire che gli studiosi neotestamentari cristiani abbiano raggiunto un terreno di consenso minimale: il nucleo certo è che Gesù è stato crocifisso. Da ciò si può concludere che venne arrestato e ne seguì una procedura giudiziaria, e che tale procedura fu certamente romana. Ciò perché la crocifissione era una pena capitale romana, non ebraica. Da un punto di vista strettamente storico, sullo svolgimento degli avvenimenti tutto il resto è dubbio (Hans Conzelmann).
La ricchezza investigativa apportata dagli studiosi ebraici, di cui Cohn è solo uno dei maggiori esponenti, è sempre tesa a riconsegnare Gesù agli ebrei, collocandolo con entrambe le gambe nella tradizione dell’ebraismo e sottolineando che Gesù «visse e morì da ebreo osservante» (Flusser). Non sorprende che queste e analoghe interpretazioni ebraiche, siano state spesso ritenute provocatorie dai cristiani e non di rado siano state condannate come apologetiche come se gli studiosi ebraici, nella loro qualità di ebrei non siano di per sé capaci di formulare giudizi seri dal punto di vista scientifico, mentre i teologi cristiani possano emettere i loro giudizi senza timore, come garanti in sé di una maggiore imparzialità (Weise).
Di fatto, in duemila anni di storia del cristianesimo, fiumi di vendetta e di sangue sono stati versati da parte cristiana contro gli ebrei dietro il grido di accusa: “gli ebrei hanno ucciso Gesù”. Tutt’oggi non riesco a rimanere indifferente alla violenza insita in questa affermazione e poco importa se a lanciarla sia uno studente, un credente o un ben pensante, se lo faccia più o meno consapevolmente o quant’altro. Occorre affrontare e, se necessario, riaffrontare la questione alla radice perché ogni mancanza di verità danneggia in due direzioni: colui che la pronuncia e colui che la riceve.
Ogni pregiudizio va innanzitutto smascherato affinché sia riconosciuto in quanto tale. Esso ha l’obiettivo subdolo di travestirsi di un’apparenza di bene per seminare il male. Cambia forma nei secoli ma ha la stessa radice e con una modalità sempre identica, oserei dire ossessiva, tende a suddividere gli esseri umani in raggruppamenti chiusi e isolabili, tali da renderli facilmente identificabili in giusti o sbagliati. Si tratta della riproduzione sistematica del cosiddetto “capro espiatorio”, analizzato e studiato nei processi sociologici, fenomeno che ancora oggi purtroppo riscuote grande consenso. Esso permette di deresponsabilizzare una parte, consentendole a sua volta di sfogare su una contro parte disprezzo, odio e vendetta in maniera del tutto apparentemente giustificata: un falso storico che ha deviato milioni di esseri umani nel corso delle varie epoche. Assume varie forme ma ha le stesse modalità, che sia contro i cristiani nei paesi islamici, contro gli zingari, gli armeni, i curdi o altri “diversi” in altre parti del mondo.
La crocifissione di Gesù, di per sé un tema delicato e scottante per tante collettività, costituisce un terreno fecondissimo di male interpretazioni. Si è costruita per esempio tutta una teologia sul popolo ebraico a partire dall’affermazione contenuta nel Vangelo di Matteo (27,25), pronunciata da alcuni giudei al momento del processo di Gesù: «E tutto il popolo rispose: “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli”». Il sangue di Gesù non ha mai gridato e mai griderà vendetta. Dal punto di vista teologico, la croce di Cristo è la manifestazione più alta, vera e concreta dell’amore di Dio per l’umanità e per mezzo di essa, ogni essere umano che l’accetti (Gv. 1,12), viene riconciliato a Lui. Eppure una dottrina di odio e di disprezzo è stata incentrata su questo unico versetto che, tra l’altro, compare solo nel Vangelo di Matteo, ignorando tutto l’insegnamento paolino (Ro. 9-11) e perfino le parole che Gesù stesso pronunciò subito dopo la scena del processo, pregando sulla croce per quelle stesse persone che lo stavano crocifiggendo, quando disse: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lu. 23,34).
La responsabilità per la crocifissione di Gesù è attribuita con molta attenzione da San Pietro nel libro degli Atti degli Apostoli (4,27-28): «Davvero in questa città si radunarono insieme contro il tuo santo servo Gesù, che hai unto come Cristo, Erode e Ponzio Pilato con le genti e i popoli d’Israele, per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano preordinato che avvenisse». Essa è chiaramente attribuita: (1) ad alcuni ebrei che furono responsabili per la crocifissione di Gesù; (2) a Erode, Ponzio Pilato e altri pagani che essendo tra l’altro i dominatori effettivi, i governanti di quel tempo sulla terra d’Israele, a loro spettava l’ultima parola; (3) a Dio Onnipotente che la preordinò come unico mezzo di salvezza per l’umanità (Ap. 13,8); (4) a Gesù stesso che riguardo alla sua vita disse: «Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio» (Gv. 10,18); (5) infine a noi credenti che dobbiamo considerare il nostro personale coinvolgimento in tutto questo poiché la Scrittura insegna che «Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is. 53,5).
La croce di Gesù assume dunque un valore così cruciale e universale che non dovrebbe meravigliare come tanti pregiudizi abbiano cercato e tutt’ora tentino di offuscarne l’immagine e deviarne il significato.
Infine occorre almeno accennare alla recente riscoperta della dimensione ebraica della storia della passione dell’ebreo Gesù di Nazareth, la sfida, cioè, di inserire seriamente la croce nel contesto della storia delle sofferenze del popolo ebraico attraverso i secoli, «quella croce che l’antiebraismo, da simbolo dell’amore e del perdono divino, ha trasformato in simbolo del rifiuto ebraico di Gesù e della colpa collettiva del popolo ebraico» (Wiese, p. 392). Invece di concepirla come destino provocato dagli ebrei nel quale i romani furono coinvolti semplicemente come riluttanti esecutori, essa deve essere intesa come destino ebraico: Gesù morì da ebreo, provò sul suo corpo ciò che molti ebrei prima e dopo di lui hanno provato per mano dei pagani e per mano di cristiani pagani. Morendo, Gesù è entrato appieno nel destino del popolo di Dio, legandosi così indissolubilmente al suo popolo fino a congiungere in un mistero divino, umanamente insondabile, la passione di Gesù e la passione del popolo ebraico fino alla Shoà.
Aver trascurato e persino rinnegato le radici ebraiche del cristianesimo ha condotto a una grave devianza del messaggio evangelico che solo a partire da una rilettura autenticamente rispettosa delle proprie origini si potrà rettificare. In questo cammino di ripristino, ciascun cristiano progressivamente potrà comprendere che la sua identità non si fonda sul fatto di essersi contrapposto o sostituito ad Israele ma di essere stato incluso in questa nuova alleanza fin dall’inizio (Ge. 12,3).
Shalom ‘al Israel, sia pace su Israele.
Bibl. essenziale: SHALOM BEN CHORIN, Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul Nazareno, trad. it, Morcelliana, Brescia 2000 (1° ed. tedesca 1967); CHAIM CHON, Processo e morte di Gesù. Un punto di vista ebraico, trad. it, Giulio Einaudi editore, Torino 200; MURRAY DIXON, Israel, Land of God’s Promise, Sovereign World, England 1988; DAVID FLUSSER, Jesus, trad. it., Morcelliana, Brescia 1997 (1° ed. tedesca 1968); MAURO PESCE, Il cristianesimo e la sua radice ebraica, Ed. Dehoniane, Bologna 1994; MICHEL REMAUD, Cristiani di fronte a Israele, trad. it., Morcelliana, Brescia 1985; M. REMAUD, Israel, Servant of God, T&T Clark LTD, London, 2003 (1° ed. francese 1983).
Le citazioni bibliche sono tratte da La Bibbia di Gerusalemme, Ed. Dehoniane, Bologna 1985.
Silvia Baldi Cucchiara