Il “Giorno della memoria” è una ricorrenza istituita dal Parlamento italiano, con la legge n. 211 del 20 Luglio 2000, aderendo ad una proposta internazionale (Gran Bretagna, Germania, ecc.) di dichiarare il 27 Gennaio come giornata in memoria dell’Olocausto perché esattamente in quel giorno, nel 1945, l’armata rossa entrò in Auschwitz (Polonia) e i cancelli del campo di sterminio sciaguratamente più noto furono definitivamente abbattuti.
La seconda guerra mondiale ha provocato più vittime di qualsiasi altro conflitto nella storia dell’umanità: 54 milioni di persone. Un intero popolo venne quasi cancellato: 6 milioni di persone uccise semplicemente perché ebree, tra cui un milione e mezzo di bambini.
L’articolo 1 della legge 211 definisce le finalità della ricorrenza: «La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 Gennaio, data dell’abbattimento di Auschwitz, “Giorno della memoria”, al fine di ricordare la Shoà, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».
Credo sia importante sottolineare le finalità per onorare una volontà parlamentare decisamente onorabile: la scelta di dedicare un giorno all’anno per ricordare le responsabilità italiane di quel genocidio. Scelta onorabile e niente affatto scontata. Tra il 1915-16, i turchi ottomani perpetrarono il genocidio del popolo armeno, costato un milione e mezzo di vittime e la diaspora dei superstiti. Ancora oggi, il governo turco giudica reato per i suoi cittadini parlare di quelle responsabilità. Pensiamo di trasporre questa condotta, di vivere cioè in un Paese in cui sia vietato parlare delle responsabilità italiane e di quelle cristiane al genocidio del popolo ebraico. Dunque: come non impegnarsi per cercare di dare valore a ricorrenze come queste?
Furio Colombo, in un articolo intitolato Shoà: la storia e la memoria (il Fatto Quotidiano, Domenica 22 gennaio 2012), prendendo spunto dal film di G. Parquet-Brenner, La chiave di Sara, proiettato in questi giorni nelle nostre sale, sottolinea quale sia la domanda che più deve interrogarci in questa occasione: non tanto o non solo «“che cosa avresti fatto allora” ma piuttosto “che cosa farai adesso”, dopo aver saputo che tutto ciò è accaduto davvero, e come è accaduto».
Shoà: il termine ebraico letteralmente significa catastrofe. I non ebrei possono usare questa espressione pur riconoscendo che lo sterminio degli ebrei non può essere considerato da noi una catastrofe perché fu un crimine di cui siamo stati responsabili, un crimine anche italiano e affinché il nostro parlamento se ne assumesse le responsabilità sono occorsi 55 anni (sigh).
Fu proprio nella nostra Camera che centinaia di deputati parlamentari, nel novembre 1938, votarono all’unanimità le peggiori leggi razziali d’Europa «firmate dal solo re europeo che ha accettato di perseguitare una parte del suo popolo, violando perfino lo Statuto Albertino del tempo». Furono giustificati ideologicamente da un gruppo di sedicenti scienziati che alcuni mesi prima (luglio 1938) aveva firmato e pubblicato il Manifesto degli scienziati razzisti. Esso forniva le motivazioni pseudo-scientifiche e pseudo-storiche dell’esistenza di varie razze umane – tra cui una superiore a tutte, l’ariana, di cui gli italiani sarebbero stati parte – con un paragrafo in cui si specificava che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana.
Responsabilità italiane e corresponsabilità cristiane: per quasi duemila anni il fulcro della teologia cristiana, l’affermazione dell’elezione della chiesa, è stato basato sulla teologia del ripudio d’Israele e la conseguente teoria del diseredamento o della sostituzione. Come è stato possibile che per duemila anni la storia del cristianesimo sia stata in gran parte una storia dell’antigiudaismo?
Sicuramente dal punto di vista teologico un punto chiave è stato il diretto collegamento tra il ripudio d’Israele e l’elezione della chiesa. Possibile che non ci sia stato altro modo di definire l’identità cristiana e l’elezione della chiesa senza il ripudio d’Israele? La chiesa può essere eletta solo perché Israele è stato ripudiato? E se Israele non fosse stato ripudiato, la chiesa non sarebbe stata eletta?
Venti anni dopo Auschwitz, nel 1965, per espressa e ferma volontà di Papa Giovanni XXIII, nonostante le innumerevoli resistenze, finalmente un concilio osò esprimersi diversamente (Nostra Aetate n.4). Per la prima volta nella storia della cristianità, il Concilio Vaticano II riconobbe il legame spirituale tra il popolo del Nuovo Testamento e la stirpe di Abramo e per la prima volta venne negato il collegamento tra elezione della chiesa e ripudio d’Israele «poiché i doni e la vocazione verso di loro, sono senza pentimento». Ci sono voluti 1965 anni? No, piuttosto ci sono voluti 6 milioni di vittime per riconoscere ciò che l’apostolo Paolo aveva già affermato nel 56 d.C. (Ro. 11, 29).
Giorno della memoria dunque ma soprattutto giorno della nostra storia che avrà senso solo se sapremo fare tesoro di un’esperienza che proprio per la sua tragicità ha ancora tanto da dire.
Shalom ‘al Israel, Silvia Baldi Cucchiara
Bibliografia minima:
FRANCESCO MARIA FELTRI, Il nazionalsocialismo e lo sterminio degli ebrei, Giuntina, Firenze 1995; FRANCESCO MARIA FELTRI, Per discutere di Auschwitz, Giuntina, Firenze 1998; MARCELLO ZAGO, Nostra Aetate, Dialogo interreligioso a 20 anni dal Concilio, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1986; ROLF RENDTORFF, Cristiani ed ebrei oggi, Claudiana, Torino 1999.